La recente messa in onda della serie TV “Troia: la caduta di una città” ha innescato nuove polemiche sulle scelte di casting nel mondo dello spettacolo. La figura dell’eroe Achille, tradizionalmente ritratto come un guerriero biondo dalla pelle chiara, è interpretato dall’attore britannico David Gyasi, di origini ghanesi.
Tale scelta ha spaccato il pubblico: c’è chi l’ha criticata come un tentativo forzato di inclusività, chi invece l’ha difesa come un passo avanti verso una maggiore rappresentazione della diversità.
La querelle ha riacceso il dibattito sul “whitewashing“, termine che indica la prassi diffusa a Hollywood di assegnare ruoli etnici ad attori caucasici, un tempo portata alle estreme conseguenze con l’uso del “blackface“, trucco che caricaturizzava i lineamenti dei neri.
Secondo gli esperti, la questione affonda le radici proprio in tali dinamiche: benché oggi tali pratiche siano in netto declino, resta il problema di opportunità ancora limitate per gli attori di colore, che spesso interpretano solo ruoli stereotipati come il teppista o la domestica.
Ma l’Achille nero è storicamente corretto? In realtà è improbabile: i Greci ebbero contatti con le popolazioni africane, ma le consideravano “esotiche”, diverse da loro. La stessa descrizione di Omero nel mito greco dipinge Achille biondo, e la sua origine tra i Mirmidoni della Tessaglia è prettamente greca.
Ciò non toglie che la serie sia godibile; tuttavia la scelta può apparire artificiosa al pubblico abituato agli effetti speciali di oggi. Meno problematiche sono parse le interpretazioni di attori europei per altri ruoli, forse perché ne sfuma l’origine specifica.
Altri casi recenti sono la saga di Harry Potter, con Noma Dumezweni nel ruolo di Hermione, o il film Disney ‘La Sirenetta’, con la cantante Halle Bailey come protagonista.
In sostanza, anziché forzare casting etnicamente lontani dall’originale, sarebbe auspicabile valorizzare nuove storie e culture, anche con protagonisti neri che riflettono la quotidianità. I neri non dovrebbero essere relegati solo a ruoli di supporto, ma rappresentati nella loro complessità.
Del resto, l’arte influenza la percezione della società: negare una rappresentazione significa negare un’esistenza. Ed è responsabilità del mondo dello spettacolo rispecchiare le minoranze senza stereotipi, per educare ad una maggiore inclusione.
Le recenti polemiche indicano che la strada è ancora lunga.
Ma piccoli passi sono stati fatti: si pensi alla regista Chloé Zhao, di origini asiatiche, che ha vinto l’Oscar nel 2021. La diversità va promossa con naturalezza, senza forzature. Ma deve trovare spazio, perché arricchisce la cultura, apre gli occhi del pubblico, fa sentire tutti rappresentati.