Sky burial, il rito tibetano dove i morti vengono dati in pasto agli avvoltoi

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Sky Burial, o funerale celeste, è un antico rito funerario tibetano, ancora oggi praticato da alcune comunità. Il rito prevede che il corpo del defunto venga scuoiato ed esposto agli avvoltoi. In Tibet la pratica è nota come “Jhator”, che vuol dire “fare l’elemosina agli uccelli”.

Il tomden, il maestro buddhista del cerimoniale, scuoia il cadavere dalla testa ai piedi, lasciando al contatto dell’aria le interiora e le ossa. Gli avvoltoi cominciano a volteggiare sopra il luogo del rituale, attirati dal fumo del ginepro e dall’odore della carne.

Il tomden chiama gli avvoltoi usando l’espressione: Shey, Shey (“Cibatevi, cibatevi”). Gli uccelli, attirati dalla carne, discendono così dal cielo e si nutrono del corpo dell’uomo morto. Le ossa e il cervello poi vengono frantumati con un martello di pietra e mescolati con farina d’orzo. Il tomden richiama ancora gli avvoltoi, che ridiscendono per mangiare gli ultimi resti.

Le motivazioni della pratica Sky Burial possono essere due, una religiosa e una ben più pratica:

1)Secondo la cultura buddhista lasciare il proprio corpo in pasto agli avvoltoi è un atto finale di generosità da parte del defunto nei confronti del mondo della natura e crea un legame con il ciclo della vita. Facendo questo, il defunto ripaga i suoi ‘debiti karmici’ con gli altri esseri.

2)In gran parte del Tibet il terreno è roccioso e la sepoltura è molto complicata. Inoltre, la scarsità di legname rende difficile la cremazione. Lasciare il corpo agli animali è un metodo per risolvere il problema dei cadaveri.

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10 commenti

  1. Interessante. Nel ciclo della vita sul nostro pianeta la specie umana è la sola a non lasciare il corpo alla natura, partecipe anche nella morte di un ciclo che non contempla appropriazione e non produce “rifiuti”.
    Abbiamo sempre considerato il rito della sepoltura, o della cremazione, l’inizia della nostra civiltà.
    L’usanza di cui riferisci unisce l’aspetto del rito al rispetto della natura di cui siamo una parte, purtroppo malata.
    Terribile e “bello” (ovviamente noi non abbiamo la parola giusta per dirlo, temo).

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